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L’importante è elaborare

Ogni 24 secondi una coppia si separa. Ma quello che potrebbe essere un dramma, dice la psicologa Silvia Vegetti Finzi, si può superare. E ci spiega come fare, con qualche rivelazione sorprendente

Silvia Vegetti Finzi (nella foto, ndr) è soprattutto un'appassionata ricercatrice e, proprio per questo, è attenta ai cambiamenti della società. Ecco perché le sue parole ci aiutano a capire cosa bisogna fare quando una famiglia si sfascia, per evitare che questo evento si trasformi in un dramma. Con qualche rivelazione e soluzione sorprendente.

«La separazione dei genitori è un evento che deve entrare nella nostra biografia, non va negato né sottovalutato, perché in questo modo sarà sempre presente dentro di noi, scatenando sensi di colpa, chiusura al dialogo e facendo molti altri danni. Purtroppo molti genitori si raccontano la favoletta che i loro bambini non si sono quasi accorti che papà e mamma si sono lasciati. Negano che i figli stiano soffrendo per le loro scelte che, intendiamoci, nessuno vuole rinnegare. Invece di una convivenza forzata e conflittuale è molto meglio un divorzio. È però necessario ammettere che, in ogni caso, si fa del male ai figli e, proprio per questo, bisogna cercare di fargliene un po' meno. Non certo fingendo, però, che non sia successo niente».

Dalle sue osservazioni, come sono oggi i genitori separati?
«Negli ultimi tempi i padri sembrano aver preso maggior coscienza del loro ruolo, anche se siamo ancora lontani dall'atteggiamento giusto. Di solito non sono capaci di fare le cose in modo corretto, non sanno per esempio cambiare o nutrire i figli in maniera adeguata, ma non ha importanza. Quello che conta è che almeno ci provino. Rispetto ai papà di una volta, che sparivano nel nulla, i nuovi padri tengono molto al rapporto con i figli. Hanno lottato per ottenere questa nuova legge per l'affido condiviso, proprio come tanti anni fa noi donne combattevamo per i nostri diritti. Mi preoccupano invece le mamme, che vedo molto isolate, molto sole».

Cosa si può fare in concreto per dare una mano alle madri o ai padri, perché possano a loro volta aiutare i loro bambini?
«Il problema è proprio questo, non sanno a chi rivolgersi. All'estero e qualcuno in Italia, solo nelle grandi città, ci sono molti centri di mediazione familiare che danno un supporto prezioso. Temo, però, che non sia facile che si creino presto altri centri, e non si tratta solo di soldi, ma di attenzione alle necessità della gente, di cultura della separazione. Nel mio ultimo libro (“Quando i genitori si dividono. Le emozioni dei figli”, ndr) ci sono anche delle storie, prese ad esempio, per indicare qual è il percorso giusto per aiutare i propri figli, che hanno reazioni molto diverse a seconda dell'età. I più piccoli somatizzano, ad esempio, i bambini si colpevolizzano, gli adolescenti assumono atteggiamenti ribelli o autodistruttivi. E anche i neonati subiscono le angosce della madre se la rottura della coppia avviene durante la gravidanza, e alla nascita ne portano già i segni. Non si deve però pensare che non ci sia soluzione e che, per proteggere i figli da un proprio fallimento, sia meglio non parlarne».

Che ruolo può avere la scuola, cosa devono fare gli insegnanti?
«Sarebbe importante che gli insegnanti sapessero che cosa fare, purtroppo però a scuola non si parla di questi argomenti, anche se ormai il cinquanta per cento delle famiglie è separata. Maestri e professori hanno timore di essere invadenti e così ignorano il problema. Dovrebbero esserci dei corsi di preparazione per gli insegnanti così che possano, in classe, trovare parole e comportamenti giusti. Non credo però alla circolare ministeriale che “ordina” di assumere certe iniziative, deve nascere tutto dal basso».

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